«In italiano, il verbo “sentire” coincide con la
capacità di provare un sentimento e un senso preciso, l’udito. In inglese non è
così, “to hear” e “to feel” sono due azioni ben distinte. Non so come funzioni
nelle altre lingue. E non so come potrò tradurre le volte che mia madre resta
distesa sul letto con gli occhi chiusi e bisbiglia “Non sento niente”, senza
perdere tutto quello che vuole dirmi».
La straniera di Claudia Durastanti è
un’opera di autofiction, in cui la
realtà viene manipolata dall’autrice e in cui le vicende personali e famigliari
incontrano la saggistica.
La storia
che racconta Claudia è insieme la sua storia e quella dei genitori, entrambi
sordi per ragioni differenti sin dall’infanzia e che a questa disabilità
decidono di rispondere in maniera del tutto anticonvenzionale, rifiutando il
proprio limite fisico e rispondendo con incoscienza, anarchia e violenza.
La biografia
che Claudia decide di creare non segue una linea temporale, ma le vicende
raccontate vengono raggruppate per macro-argomenti
e in questo senso la particolare struttura del libro risulta molto innovativa
dal momento che i capitoli sono divisi e denominati come le sezioni di un
oroscopo: famiglia, viaggi, salute,
lavoro & denaro, amore, di che segno sei?
Il tema centrale del romanzo risulta chiaro sin dal titolo
dell’opera: l’essere straniera.
Questa estraneità viene rappresentata dalla stessa Claudia,
nata a Brooklyn e trasferitasi poi, all’età di sei anni in un paesino della Val
d’Agri, in Basilicata, e poi di nuovo a Roma per gli studi in antropologia e
ancora a Londra, dove tutt’ora risiede e lavora. Il suo essere straniera è
quindi in questo caso un eccesso di radici, una possibilità di scelta tra tante
patrie, che però porta inevitabilmente a non sentirsi mai del tutto a casa. L’inadeguatezza
in questo caso risulta, quindi, nell’essere troppo Americana per essere Italiana
e troppo Italiana per essere Americana, un sentimento che, personalmente, posso
affermare di conoscere bene.
Ma stranieri
sono anche i suoi genitori, che risultano estranei alla società, dal momento
che il loro difetto fisico, a cui si aggiunge anche una malattia di tipo
psichiatrico, risulta inevitabilmente in un handicap, uno svantaggio di tipo
sociale, a cui essi decidono di rispondere con eccesso e violenza, vivendo una
vita spericolata, senza regole, rifiutando ogni convenzione, tra cui anche il
linguaggio dei segni.
La Durastanti affronta in questo libro tanti temi importanti:
la disabilità dei suoi genitori e lo
svantaggio che da ciò deriva; la povertà vista quasi come una malattia; le migrazioni, prima quelle dei suoi nonni
verso l’America negli anni Sessanta e poi, in un percorso inverso, la sua
migrazione verso l’Italia e poi ancora verso l’Inghilterra; la forza della
letteratura, perché per Claudia esiste sempre un prima e un dopo un
determinato romanzo e perché nel libro non mancano certo i riferimenti
letterari, ma non solo, alle opere che più hanno avuto impatto nella sua vita;
l’amore e i legami famigliari,
perché il rapporto con la madre e la sua figura risultano centrali in tutto il
romanzo.
Ma
nonostante ciò il suo romanzo rimane senza moralismi, nessuna catarsi finale, nessuna
pretesa di dare insegnamenti.
Le basi per un buon romanzo ci sono tutte, eppure, Claudia
Durastanti non è riuscita a conquistarmi.
Il suo libro risulta confuso, disordinato, spesso sconclusionato.
Tra continui
citazionismi e frasi che cercano di risultare memorabili è difficile arrivare
ad essere coinvolti appieno dalla storia che viene raccontata, non si prova
empatia con i personaggi/persone e la continua artificiosità delle immagini che crea o delle parole che accosta
rende il romanzo forzato, poco scorrevole e piacevole.
Chiuso il libro, inoltre, mi sono chiesta che cosa mi avesse
lasciato e a giorni di distanza la risposta sembra essere sempre la stessa:
niente.
Ed è un peccato, perché Claudia Durastanti è un’autrice che
potrebbe avere tanto da raccontare, ma in questo caso non è riuscita,
purtroppo, almeno per me, a farlo bene.
Samanta Zhang
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