“Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa vista da lassù, era diversa, e questo era già un divertimento. Il viale aveva tutta un’altra prospettiva e le aiuole, le ortensie, le camelie, il tavolino per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si infittivano e l’ortaglia degradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti e dietro, l’abitato d’Ombrosa sporgeva i suoi tetti di marrone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte ed un lento veliero vi passava”.
Mi sono scoperta lettrice relativamente tardi. Era l’estate dei miei diciassette anni, mi apprestavo a vivere il mio ultimo periodo da liceale e agognavo quella libertà che tutti i giovani non vedono l’ora di avere tra le mani, ma che hanno anche paura di sprecare. Fu in una giornata animata dai presagi più oscuri che, con gli occhi arrossati a causa di una cocente delusione d’amore la quale ancora procurava grandi scossoni al mio cuore, iniziai a leggere “Il barone rampante” di Italo Calvino. Lo avrei detestato, ne ero già certa. Perché la professoressa voleva a tutti costi farci trascorrere la nostra estate chini sui libri? Non ci bastavano già nove mesi di scuola? Non lo avrei mai terminato.
E invece, accadde qualcosa che non mi sarei minimamente aspettata. Seguendo la storia di Cosimo di Rondò, consumando le parole, masticando avidamente le righe nere sullo sfondo bianco in cui tutto può accadere, ma non è detto che accada, iniziai a percepire che dentro di me stava succedendo qualcosa: non c'erano dubbi che Calvino mi avesse conquistata, ma anche questo piccolo oggetto di carta, che bastava aprire perché ti raccontasse il suo mondo, non era niente male.
È stato quello il primo momento in cui ho capito che l’amore per i libri mi aveva scelta, aveva deciso di donarsi a me, con lo zampino di Italo Calvino che era entrato di soppiatto nella mia vita per non uscirne mai più.
“Il barone rampante”, pubblicato per la prima volta nel 1957, parte da una considerazione importante: la realtà è diventata banale e noiosa, bisogna trovare il modo di evadere. E il barone Cosimo Piovasco di Rondò lo fa. In seguito a un piccolo litigio con il padre, decide di abbandonare la sua casa, i suoi familiari e la sua vita agiata per nascondersi tra i fitti rami degli alberi e trascorrere lì la sua intera esistenza.
Attraverso l’io narrante del fratello del protagonista, che rimane “ a terra” ammirato dalle sue inconsuete quanto meravigliose gesta, percorriamo la vita del Barone che si fonde con le più importanti vicende storiche della fine del XVIII secolo fino alla Restaurazione, tutto vissuto dall’alto passando da un albero all’altro senza mai scendere.
Ciò conduce l’autore a creare tutta una serie di divulgazioni in cui compaiono un Napoleone desideroso di proporsi come un novello Alessandro Magno, un Voltaire che s’intrattiene in una conversazione con la nobiltà parigina e via di seguito una schiera di anonime figure di massoni, gesuiti, esuli spagnoli, rivoluzionari giacobini, pirati, truppe francesi e via discorrendo.
Dietro la vivacità della narrazione troviamo, però, il cuore pulsante dell’opera: il tema del rapporto io – mondo esterno. Cosimo va a vivere sugli alberi, si isola, ma non rinuncia a essere partecipe delle disavventure e gioie dei “terrestri”. Il suo idealismo lo stimola a progetti utopistici in cui coinvolge il popolino di Ombrosa, il paesino immaginario della riviera ligure, in cui si svolgono i fatti.
In sintesi, l’autore offre una rappresentazione letteraria del dissidio tra libertà personale e necessità di un qualsiasi patto sociale con relative restrizioni e compromessi.
Un dissidio che lo porterà in piena crisi quando si scontrerà con il sentimento che più di tutti “move il sole e le altre stelle”: l’amore.
“Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non si era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così”.
Cosimo scorge Viola per la prima volta sporgendosi dai rami di una magnolia verso il terreno dei D’Ondariva, i suoi vicini di casa. Lei è una bambina bionda sui 10 anni e lui incuriosito dalla sua immagine inizia ad ammirarla dall’alto, fin quando i due non iniziano un’amicizia fatta di giochi vivaci e battibecchi dispettosi dai quali poi sboccerà l’amore.
Viola è uno dei personaggi più interessanti di questo romanzo per la forte ambivalenza che presenta la sua personalità. È infantile, ma dimostra in diverse occasioni di essere dotata di un’importante profondità; è viziata e opportunista, ma è anche una donna indipendente che sa ciò che vuole. Così il lettore insieme allo stesso Cosimo è portato a nutrire sentimenti contrastanti per colei che sarà l’unico e vero amore del protagonista.
Un amore tortuoso e instabile reso tale dal carattere poco malleabile dei due personaggi e dalla gelosia esasperata che appartiene ad entrambi, dovuta soprattutto al fatto di non conoscere i loro reciproci passati. Litigi, incomprensioni e dolori portano Cosimo e Viola a dirsi addio, ma il ricordo di quel sentimento non abbandonerà mai il cuore del Barone.
“S'accorgeva che tante cose non gli importavano più, che senza Viola la vita non gli prendeva più sapore, che il suo pensiero correva sempre a lei. Più cercava, fuori dal turbine della presenza di Viola, di ripadroneggiare le passioni e i piaceri in una saggia economia dell'animo, più sentiva il vuoto da lei lasciato o la febbre d'attenderla”.
In questo romanzo di formazione anche l’amore determina una scelta perché Cosimo, l’eroe della disobbedienza verso le norme che regolano la società, decide di voltare le spalle anche al sentimento più forte che abbia mai provato. E che la colpa sia sua o di Viola non importa, Cosimo sceglie di sua spontanea volontà di continuare a essere l’uomo che vive sugli alberi, di restare sospeso nel mondo e di essere fedele a quel disimpegno sociale che – nonostante provi a dimostrare il contrario – resterà sempre tale.
Ed ecco che il lettore riesce a immedesimarsi nel Barone, ecco che la me del passato e del presente leggendo e rileggendo le parole di Calvino e del suo protagonista concordano nel ritenere che questo romanzo sia l’inno della fragilità umana. Una fragilità che ci viene raccontata attraverso le amicizie, le esperienze, la cultura e l’amore che ogni uomo prova nella sua stessa vita, cose che gli riempiono l’esistenza e lo rendono completo, ma non per questo felice.
E allora Cosimo di Rondò è stato coraggioso o vigliacco? Determinato o ottuso? Non lo sapremo mai, neanche dopo aver letto l’ultima pagina, in cui Biagio ricorda suo fratello e il giardino in cui erano soliti giocare e dà sfogo a quella nostalgia ispirata dai ricordi e dai luoghi della sua infanzia.
“Ora che lui non c’è mi pare che dovrei pensare a tante cose, la filosofia, la politica, la storia, seguo le gazzette, leggo i libri, mi ci rompo la testa, ma le cose che voleva dire lui non sono lì, è altro che lui intendeva, qualcosa che abbracciasse tutto, e non poteva dirla con parole ma solo vivendo come visse”.
Una cosa, però, posso dirla. Il Barone rampante mi ha insegnato una cosa importante: capiterà sempre di restare intricati tra i rami e le spine della nostra esistenza, di sentirsi sospesi in un mondo tutto nostro mentre chi ci circonda porta avanti la sua vita con o senza di noi, ma fuggire da sé stessi e dalle proprie responsabilità non ci farà sentire meglio. Bisogna affrontare i nostri demoni e le nostre paure più profonde, restare con i piedi per terra, ma soprattutto avere il coraggio di accettarsi e di amarsi per quello che si è.
E se lo avesse fatto anche Cosimo, quale piega inaspettata avrebbe preso la sua vita?
Forse avrebbe avuto il coraggio di cambiare la sua storia, di scenderle dall’albero, di scegliere la vita, l’amore e non soffrire più.
Forse, oppure no.