lunedì 20 maggio 2019

[Nel nome della Strega]: Samlibrary94 recensisce "La Straniera" di Claudia Durastanti


«In italiano, il verbo “sentire” coincide con la capacità di provare un sentimento e un senso preciso, l’udito. In inglese non è così, “to hear” e “to feel” sono due azioni ben distinte. Non so come funzioni nelle altre lingue. E non so come potrò tradurre le volte che mia madre resta distesa sul letto con gli occhi chiusi e bisbiglia “Non sento niente”, senza perdere tutto quello che vuole dirmi».



La straniera di Claudia Durastanti è un’opera di autofiction, in cui la realtà viene manipolata dall’autrice e in cui le vicende personali e famigliari incontrano la saggistica.

La storia che racconta Claudia è insieme la sua storia e quella dei genitori, entrambi sordi per ragioni differenti sin dall’infanzia e che a questa disabilità decidono di rispondere in maniera del tutto anticonvenzionale, rifiutando il proprio limite fisico e rispondendo con incoscienza, anarchia e violenza.

La biografia che Claudia decide di creare non segue una linea temporale, ma le vicende raccontate vengono raggruppate per macro-argomenti e in questo senso la particolare struttura del libro risulta molto innovativa dal momento che i capitoli sono divisi e denominati come le sezioni di un oroscopo: famiglia, viaggi, salute, lavoro & denaro, amore, di che segno sei?


Il tema centrale del romanzo risulta chiaro sin dal titolo dell’opera: l’essere straniera.
Questa estraneità viene rappresentata dalla stessa Claudia, nata a Brooklyn e trasferitasi poi, all’età di sei anni in un paesino della Val d’Agri, in Basilicata, e poi di nuovo a Roma per gli studi in antropologia e ancora a Londra, dove tutt’ora risiede e lavora. Il suo essere straniera è quindi in questo caso un eccesso di radici, una possibilità di scelta tra tante patrie, che però porta inevitabilmente a non sentirsi mai del tutto a casa. L’inadeguatezza in questo caso risulta, quindi, nell’essere troppo Americana per essere Italiana e troppo Italiana per essere Americana, un sentimento che, personalmente, posso affermare di conoscere bene.
Ma stranieri sono anche i suoi genitori, che risultano estranei alla società, dal momento che il loro difetto fisico, a cui si aggiunge anche una malattia di tipo psichiatrico, risulta inevitabilmente in un handicap, uno svantaggio di tipo sociale, a cui essi decidono di rispondere con eccesso e violenza, vivendo una vita spericolata, senza regole, rifiutando ogni convenzione, tra cui anche il linguaggio dei segni.


La Durastanti affronta in questo libro tanti temi importanti: la disabilità dei suoi genitori e lo svantaggio che da ciò deriva; la povertà vista quasi come una malattia; le migrazioni, prima quelle dei suoi nonni verso l’America negli anni Sessanta e poi, in un percorso inverso, la sua migrazione verso l’Italia e poi ancora verso l’Inghilterra; la forza della letteratura, perché per Claudia esiste sempre un prima e un dopo un determinato romanzo e perché nel libro non mancano certo i riferimenti letterari, ma non solo, alle opere che più hanno avuto impatto nella sua vita; l’amore e i legami famigliari, perché il rapporto con la madre e la sua figura risultano centrali in tutto il romanzo.
Ma nonostante ciò il suo romanzo rimane senza moralismi, nessuna catarsi finale, nessuna pretesa di dare insegnamenti.


Le basi per un buon romanzo ci sono tutte, eppure, Claudia Durastanti non è riuscita a conquistarmi.
Il suo libro risulta confuso, disordinato, spesso sconclusionato.
Tra continui citazionismi e frasi che cercano di risultare memorabili è difficile arrivare ad essere coinvolti appieno dalla storia che viene raccontata, non si prova empatia con i personaggi/persone e la continua artificiosità delle immagini che crea o delle parole che accosta rende il romanzo forzato, poco scorrevole e piacevole.


Chiuso il libro, inoltre, mi sono chiesta che cosa mi avesse lasciato e a giorni di distanza la risposta sembra essere sempre la stessa: niente.
Ed è un peccato, perché Claudia Durastanti è un’autrice che potrebbe avere tanto da raccontare, ma in questo caso non è riuscita, purtroppo, almeno per me, a farlo bene.


Samanta Zhang

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